Riflessioni sul Veggie Pride

Par David Olivier Whittier

La versione originale in lingua francese di questo testo è stata pubblicata nel numero 21 (2002) dei Cahiers antispécistes, ed è anche disponibile sul sito della rivista.

È stato ripubblicato, insieme a testi di altri autori, nella brochure Riflessioni sul Veggie Pride.

Vegetarismo = vegetarismo per gli animali

Il Veggie Pride afferma l'orgoglio di essere vegetariane/i per gli animali. Questo non vuol dire che altri argomenti, come la salute o il Terzo Mondo, debbano essere censurati (è sicuramente necessario d'altra parte rispondere alla propaganda «medica» che sostiene l'impossibilità di fare a meno dello sfruttamento degli animali), ma che tra le motivazioni per il vegetarismo la questione animale deve occupare quel posto centrale che le spetta di diritto. Il fatto di mangiare o meno gli animali riguarda in primo luogo gli animali stessi.

Voler imporre questo è in qualche modo «non democratico» nei confronti di coloro che sono vegetariani per altri motivi. Ma dobbiamo farci carico di questo gesto, poiché mettere l'accento su di un vegetarismo diversamente motivato equivale, in un certo senso, a rubare la parola agli animali. Il vegetarismo, che lo si voglia o meno, è in primo luogo qualcosa che «ha a che fare» con gli animali, con il loro non assassinio, con il loro non sfruttamento.

Questa limitazione è essenziale. Non vedo l'interesse di un Veggie Pride dove tutto sia mischiato, e che i media interpreterebbero come l'ennesimo corteo contro il consumo non responsabile. Non credo che questa restrizione avrà gran peso dal punto di vista della partecipazione numerica. Oramai sempre più vegetariani dichiarano apertamente di essere tali per gli animali. Non era così fino a pochi anni fa. Oggi il coraggio di affermarlo è più diffuso – almeno fra di noi. Dobbiamo fare la stessa cosa pubblicamente, senza nasconderci dietro i discorsi che suscitano consenso: «salute/natura/terzo mondo».

E penso che molte persone (se non tutte) che dicono, e addirittrura pensano, di essere vegetariane per altri motivi, in realtà lo sono per gli animali; solo non osano confessarlo, a volte neanche a se stessi. Il Veggie Pride deve essere, per il vegetarismo, un coming out nel senso proprio del termine, dunque anche una liberazione dalle nostre gabbie interiori, per affermare che siamo vegetariani/e per gli animali.

D'altra parte, dire «sono fiero/a di essere vegetariano per la mia salute» mi sembrerebbe una proposizione altrettanto assurda che «sono fiero/a di non fumare per la mia salute». È in quanto rifiuto di partecipare ad un massacro che ha senso dire che si è orgogliosi di essere vegetariani.

La vegefobia

Il nome stesso di «Veggie Pride» fa evidentemente riferimento ai Gay Pride, poi Lesbian-Gay Pride, che si svolgono dagli anni Settanta in molte città. Mi sembra che il parallelo sia fruttuoso, e che alcuni concetti della militanza omosessuale si possano applicare anche al vegetarismo. In particolare, è possibile riscontrare e denunciare nelle nostre società una vegefobia, un'ostilità contro coloro che si rifiutano di partecipare al grande massacro. Con il Veggie Pride rivendichiamo il nostro coming out, la nostra uscita allo scoperto. Sia la mia esperienza personale che le testimonianze di altri, mi portano a credere che questo non sia affatto semplice, e che dobbiamo far fronte alla chiara volontà di farci vergognare della nostra preoccupazione per gli animali non umani.

Quando un crimine viene commesso da una collettività, si sospetta di coloro che rifiutano di parteciparvi; è difficile credere che questo rifiuto non implichi un giudizio, una condanna silenziosa, che un giorno potrà diventare una aperta denuncia. La vegefobia testimonia implicitamente il fatto che, nel profondo, tutti sanno cha abbiamo ragione; tutti sanno che tutti dovrebbero smettere di mangiare gli animali. Questa vergogna che ci viene imposta, questo «Hitler era vegetariano» che ci si getta contro con tanta disinvoltura, non sono che il riflesso speculare della vergogna verso se stessi che provano tutti coloro che partecipano a questo crimine collettivo.

Ci sono mille modi per il vegetarismo di restarsene nascosto. Il primo è quello di tutti coloro che mangiano carne, rimuovendo qualsiasi domanda in proposito. Altri ammettono i loro dubbi, ma non li mettono in pratica, cedendo alla pressione della famiglia, dei colleghi, dei clienti, degli amici. Altri sono vegetariani, ma solo a casa propria, quando nessuno li vede. Altri ancora sono più convinti, ma evitano i pranzi familiari, portano il loro cibo da casa piuttosto che andare alla mensa e si tengono lontani da tutte quelle situazioni in cui la loro «particolarità» potrebbe essere notata.

Una parola sulle mense: dato che le/i vegetariane/i si nascondono, raramente le mense sono poste di fronte all'esigenza di fornire pasti senza carne. Quando però ciò avviene, oppongono una resistenza molto particolare, che ha poco a che fare con le difficoltà tecniche che vengono invocate. Accetteranno più facilmente altri tipi di pasti particolari. Bisogna infatti notare che uno stesso pasto senza carne potrebbe soddisfare sia le esigenze degli ebrei che dei musulmani – e quelle di tutti, del resto! Dal punto di vista organizzativo, un menù unico, vegan, sarebbe in effetti una semplificazione, non una complicazione. E tuttavia è come se i carnivori non solo si permettessero di mangiare gli animali, ma si sentissero obbligati a farlo.

Il vegetarismo non è proibito dalle nostre leggi, ma si tende a considerarlo un'espressione di settarismo e, come tale, è sottoposto ad una repressione ufficiosa. D'altra parte, le autorità mediche francesi mentono sistematicamente sul vegetarismo e ancor più sul veganismo, diffondendo l'idea che l'alimentazione umana non possa fare a meno dello sfruttamento degli animali1. Queste opinioni aberranti adombrano una minaccia legale contro chi vuole crescere i propri figli senza carne; se non è una motivazione sufficiente per sottrarli alla loro potestà, sarà una circostanza aggravante laddove ci siano dei problemi di tipo sociale o altro. E parallelamente sarà più difficile per questi genitori trovare dei consigli pediatrici e dietetici oggettivi e pertinenti, dato che i medici si chiudono spesso nel totale rifiuto. Insomma, se il carnivorismo non è imposto da nessuna legge scritta, ogni sua rimessa in discussione è sistematicamente emarginata2.

La maschera «salute/natura/terzo mondo»

Il vegetarismo può togliersi una maschera per indossarne un'altra; simile ai ghetti in cui si rifugiano talvolta le persone omosessuali. In questo caso non si tratta più di nascondere il proprio vegetarismo, ma di occultare quanto più possibile la critica implicita che questo comporta verso l'ordine specista, trovandogli ogni sorta di motivazioni differenti o presentandolo come una scelta strettamente personale. Qualche anno fa, durante una conferenza che si è tenuta a Lione sull'«alimentazione alternativa», ho chiesto ai relatori per quale ragione non parlassero mai dei diretti interessati, ovvero gli animali. Uno di loro mi ha risposto che lui stesso era vegetariano da molto tempo, e per gli animali; ma ne aveva ben presto avuto abbastanza dell'aggressività che questo suscitava contro di lui. Da allora si presentava come vegetariano per preoccupazioni salutiste.

Almeno ha avuto il merito di dire le cose come stavano. Ed io credo che sia per le stesse ragioni che tante associazioni e tante persone vegetariane parlano così raramente della questione animale. Spesso anzi rilanciano ed accentuano gli aspetti naturalistici ed umanisti di loro discorsi, quasi dovessero a tutti i costi allontanare da sé il sospetto di prendere sul serio gli interessi dei non umani. Sono questi i discorsi che, presso il grande pubblico, definiscono l'immagine dei vegetariani; o almeno l'immagine che se ne vuole avere, se si cerca il consenso. «Ah, sei vegetariano, immagino che non bevi nemmeno alcoolici...»: ho sentito questa frase mille volte. Invece, se l'interlocutore è meno conciliante, se ne esce che anche Hitler era vegetariano e (come me) amava gli animali. Ritengo pertanto che questa maschera «salute/natura/terzo mondo» non inganni davvero nessuno; funziona solo come eufemismo. Gli animali però non sono allevati ed uccisi per eufemismo. Il nostro coming out deve essere anche il loro: il rivelarsi in pubblico della nostra esistenza e della loro. Noi rifiutiamo di mangiare animali perché riconosciamo l'esistenza e l'importanza dei loro interessi; è scopo del VP permetterci di dire che esistiamo, di dire perché esistiamo, e dunque di dire che anche loro esistono.

Veggie Pride e non Pride antispecista

Non credo che si debba essere orgogliosi di un'idea o di una convinzione. E l'antispecismo è di per se una questione di idee. Il vegetarismo ne è un'evidente conseguenza pratica; ma non si può dire che il reciproco sia vero. In ogni caso, molti rifiutano di mangiare carne per ragioni etiche, per compassione, per senso di giustizia verso gli animali, senza aver mai sentito parlare di antispecismo. Ritengo che il rifiuto della carne, basato su queste motivazioni, sia di per se stesso un motivo legittimo di orgoglio.

È indispensabile portare avanti la riflessione antispecista propriamente detta; ma non la si deve concepire come l'unico modo possibile di mobilitazione e di lotta contro lo sfruttamento degli animali, cioè contro lo specismo. A prescindere dalle diverse posizioni che si possono avere su tematiche come l'eguaglianza animale, l'anti-naturalismo, la predazione e l'alleanza con altre lotte (antirazzismo, femminismo, uguaglianza economica...), il vegetarismo resta il minimo che si possa fare nella nostra relazione con gli esseri sensibili non umani; è un minimo ancora raro, il cui sviluppo è condizione necessaria per l'avanzamento di una riflessione collettiva in direzione antispecista.

Rivendicare i nostri diritti

Non concepisco il Veggie Pride come se dovesse rivendicare che tutti smettano di mangiare gli animali. Lo considero una manifestazione per esigere il nostro diritto al pieno riconoscimento sociale ed alla piena libertà d'espressione in quanto persone solidali con gli animali, persone che quindi non li mangiano e considerano illegittimo che chiunque li mangi.

Uno schema a due livelli, insomma: tramite il Veggie Pride noi non esigiamo la fine del carnivorismo, ma esigiamo di poterlo esigere...

Questa può sembrare una distinzione sottile, ma io credo che sia essenziale. È un po' la stessa differenza che c'è fra condividere le idee di una persona e difendere il suo diritto ad esprimerle. Questa distinzione viene in linea di principio riconosciuta nelle nostre società democratiche. In nome dei principi stessi della democrazia e dei diritti umani, noi possiamo fin da subito esigere non che ci si pieghi alle nostre idee, ma che si ammetta pienamente il nostro diritto ad esprimerle pubblicamente e che siano prese in considerazione sul serio, e non di primo acchito escluse e diffamate.

Fare riconoscere qui ed ora dei diritti animali

Una reazione che possiamo facilmente suscitare è quella di ritenere specista l'insistenza sui nostri diritti di esseri umani, e sull'oppressione vegefobica di cui siamo vittime, piuttosto che sulla sorte degli animali non umani, che è ben peggiore della nostra.

Ciò può sembrare logico; ad ogni modo, si tratta di un atteggiamento che io ho avuto per molto tempo, almeno in parte, e che ritengo necessario criticare. Per quanto sembri logico, è in realtà paradossale: in nome dell'antispecismo, tale atteggiamento ci porta in qualche modo ad opporre i diritti degli animali ai nostri. E se, al contrario, considerassimo i nostri diritti come diritti animali – dato che noi siamo degli animali?

Nella nostra società è dato per scontato che ognuno difenda i propri diritti, i propri interessi. Se, al contrario, cerchiamo di difendere quelli altrui, ci sentiamo generalmente ribattere «di che ti impicci?» Ecco una delle difficoltà che riscontriamo nel difendere gli animali non umani.

Ma, appunto, quelli che sono considerati come «nostri propri» diritti ed interessi sono facilmente estendibili, per identificazione. In caso di aggressione contro una data comunità, per esempio, si ammetterà molto tranquillamente che altri membri della stessa comunità manifestino o siano ricevuti dalle autorità. Non verrà loro detto «di che vi impicciate, non siete voi in prima persona ad essere stati feriti o uccisi!». Al contrario, si penserà: «è logico, si difendono». Infatti, si dirà la stessa cosa anche se le persone che manifestano non sono minacciate in prima persona. La comunità ebraica in Francia si è mobilitata per il processo antisemita intentato due anni fa in Iran contro tredici ebrei. Eppure, gli ebrei francesi difficilmente rischiavano di subire la stessa sorte! Questo non ha impedito che venissero ascoltati, e che si pensasse che «si» stavano difendendo.

Questa identificazione può funzionare in molti altri modi ancora: fra membri di uno stesso gruppo religioso, di uno stesso raggruppamento storico (per esempio, gli harki3), fra persone accomunate da una stessa preferenza sessuale, e così via. Credo che, se ci riconosciamo come animali – come esseri sensibili, dotati di una soggettività – e come esseri solidali con tutti gli animali, ed in particolare con quelli che vengono allevati e macellati per la carne, dobbiamo identificarci con questi animali.

La maggior parte degli umani si considerano come qualcosa di completamente distinto dagli animali. Noi ci riconosciamo come appartenenti allo stesso gruppo cui appartengono tutti gli animali. Ognuna/o di noi fa parte dello stesso gruppo di cui fanno parte i maiali che vengono sgozzati nei macelli; anche se noi non rischiamo, individualmente, di subire la stessa sorte.

Basta fare questa scelta nella propria testa perché avvenga qualche cosa di un po' magico. È sbagliato dire che oggi gli animali non godono di diritti riconosciuti dalla società. Noi godiamo di diritti riconosciuti dalla società – noi che siamo degli animali, che apparteniamo allo stesso gruppo degli animali sgozzati. Questo gruppo non è quindi del tutto privo di diritti. Gli animali hanno i diritti che noi abbiamo. Noi non dobbiamo vergognarci di far valere pienamente i nostri diritti, per noi e per quei membri del nostro gruppo che non hanno la nostra stessa fortuna.

La nostra duplice appartenenza

Per esempio, noi dobbiamo esigere pasti vegani nelle mense; e non dobbiamo accontentarci di tre foglie di insalata e un tozzo di pane: dobbiamo esigere che tali pasti siano buoni quanto quelli dei carnivori. Così facendo, non approviamo i pasti a base di carne; affermiamo semplicemente che non dobbiamo essere private/i della pienezza dei nostri diritti di esseri umani con il pretesto che siamo solidali con gli animali non umani.

Perché è proprio di questi diritti che il Veggie Pride esige il rispetto. Noi apparteniamo pienamente a due gruppi; ne siamo l'intersezione. Siamo esseri umani, e facciamo parte a pieno titolo di quel gruppo i cui membri vogliono considerarsi di pari diritti; ma siamo anche animali, e facciamo a pieno titolo parte dello stesso gruppo dei maiali sgozzati. Dobbiamo esercitare i diritti che derivano da questa prima appartenenza – ed in particolare, il diritto a partecipare al dibattito pubblico – senza dimenticare né nascondere, neanche per un istante, la seconda appartenenza.

La duplice appartenenza è una posizione difficile: facilmente ci verrà intimato di fare una scelta. Riscontro molte analogie con la situazione storica, tuttora attuale, degli ebrei. La doppia appartenenza è stata ed è ancora uno dei maggiori motivi di rimprovero nei loro confronti. Una possibile reazione è quella di negarla, come testimonia il patriottismo spesso esasperato di molti ebrei su entrambe le sponde del Reno prima del 1914. I risultati di tale strategia non sono stati molto efficaci. A mio parere, accade la stessa cosa con l'umanesimo esasperato di molte/i vegetariane/i.

Al contrario, io penso che dobbiamo lottare per fare riconoscere pienamente la nostra duplice appartenenza; e penso che possiamo farlo, in nome della stessa democrazia. Quest'ultima è ambigua a tale riguardo: da una parte ammette la totale libertà di pensiero, e dall'altra esige fedeltà unica ed incondizionata nei suoi confronti. Io non credo che essa possa fare al tempo stesso le due cose. Noi dobbiamo esigere il godimento totale dei diritti che essa ci riconosce, senza nascondere che lo facciamo in solidarietà con degli esseri ai quali essa non accorda nulla.

La nozione di orgoglio

Ci sono state alcune resistenze riguardo a questa nozione di orgoglio posta in rilievo dal Veggie Pride; posso essere in parte d'accordo con alcune di queste resistenze sul piano strettamente teorico, ma non credo che siano giustificate nella realtà.

In effetti, per la logica utilitarista – quella a cui mi richiamo – ciò che conta è giudicare moralmente le azioni, e non condannare o lodare i loro autori. Né l'orgoglio, né il suo contrario, la vergogna, fanno parte dei concetti fondamentali dell'etica che faccio mia.

Ma se questa etica, a livello teorico, non dà valore alla nozione di orgoglio, neppure la condanna. L'orgoglio non è una nozione puramente etica; è una nozione essenzialmente sociale. È nei confronti degli altri che siamo orgogliose/i. Ammettere che diamo importanza allo sguardo degli altri, come fa qualsiasi scimpanzè nella sua tribù, significa ammettere che non siamo dei meri esseri dotati di ragione, dei puri spiriti. La militanza antispecista ha paradossalmente avuto un'eccessiva tendenza a rifugiarsi in un intellettualismo disincarnato, a privilegiare esclusivamente quella «ragione» che è considerata specificatamente umana; probabilmente per difendersi dal disprezzo che ricade su chiunque si preoccupi degli animali non umani. L'antispecismo, così facendo, ha indossato anche lui una maschera. Per me non si tratta, evidentemente, di rinnegare la mia ragione, non più che di rinnegare i miei piedi o le mie mani; ma è la ragione di un animale, e questo non voglio più negarlo.

Il Veggie Pride mette in rilievo un orgoglio modesto. Il vegetarismo è forse il più modesto fra i motivi d'orgoglio. Non è necessario aver scoperto l'acqua calda, o essere un premio Nobel. Il premio Nobel per la letteratura Isaac Bashevis Singer ha detto che la cosa di cui è stato maggiormente orgoglioso nella sua vita, è stata il fatto di essere diventato vegetariano. Alle Olimpiadi dell'orgoglio vegetariano, vogliamo essere in sei miliardi sul podio. Il nostro orgoglio è quello di essere esseri sensibili, in entrambi i sensi del termine4, di prendere in considerazione gli altri anche quando sono differenti da noi. Il nostro orgoglio è quello di aver fatto il minimo che si possa fare, una cosa tanto importante quanto elementare, una cosa che tutto il mondo può e dovrebbe fare. Eppure, gli altri non la fanno, questa cosa, mentre noi la facciamo; non è giusto che ne siamo orgogliosi, e che lo dichiariamo?

Alcuni, in particolare negli ambienti militanti radicali, rifiutano l'idea di orgoglio vegetariano. Credo che la ragione sia spesso che costoro sono troppo orgogliosi per rivendicare un orgoglio così modesto!

Altri ci rimproverano di volerci isolare dai carnivori manifestando il nostro orgoglio. Ma, in realtà, tale orgoglio non ci pone tanto al di sopra degli altri, quanto di fronte agli altri; esprime l'importanza che noi attribuiamo agli altri ed al legame con la società nel suo insieme. Questo legame può esistere pienamente solo se ci rifiutiamo di tacere ciò che pensiamo o che proviamo. Credo che non si possa fare politica ponendosi all'esterno della società, indipendentemente da quanto aspra possa essere la nostra critica di questa società.

Infine, l'affermazione del nostro orgoglio rappresenta una soluzione almeno parziale al problema posto dalla condanna morale che è necessario esprimere nei confronti del carnivorismo. «Dal punto di vista degli animali, siamo tutti nazisti», diceva lo stesso I. B. Singer. Ciò è vero, ed è importante che venga detto; è vero dal punto di vista degli animali maltrattati, ma è falso in rapporto alla realtà psicologica e sociale. I nazisti hanno «innovato» in materia di orrore, hanno aggravato ciò che c'era di negativo nella cultura che avevano ricevuto; i carnivori non fanno che perpetuare degli orrori già iscritti nella loro cultura. Anche in questo caso, piuttosto che attenerci ad una logica disincarnata, secondo la quale questi atti sono condannabili, ed il nostro rifiuto di parteciparvi è semplicemente «normale», penso che possiamo provare più indulgenza per i carnivori, e più orgoglio per noi stessi. Rifiutare di partecipare al massacro può sembrarci ovvio, oggi; ammettiamo che non sempre è stato così, e che spesso è stato difficile. Denunciare la vegefobia significa anche testimoniare ciò che noi abbiamo subito, e grazie a questo condannare meno, e capire di più, le esitazioni degli altri a fare il nostro stesso passo.

Resta il fatto che oggi gli animali non umani sono effettivamente trattati nello stesso modo in cui sono stati trattati gli umani vittime del nazismo. Credo che possiamo ancora dirlo; credo che si debbano coniugare i due approcci. La realtà contraddittoria in cui viviamo, la banalità di questo male immenso, non consentono un discorso univoco.

 

1. La propaganda carnivora ammette ormai sempre più spesso la possibilità del vegetarismo, a patto che si continuino a mangiare il latte e le uova. Ma nello stesso tempo essa tende a svuotare questo vegetarismo del suo significato. Così per esempio Jean-Marie Bourre, un neurologo specializzato in tale propaganda, dichiarava alla radio France Inter il 10 maggio 2001:

«Vorrei essere un po' provocatorio, dato che Jean-Michel ha appena detto di non voler mangiare il prodotto della sofferenza. Infatti egli dimentica che il latte che consumiamo è stato prodotto da mucche, e perché le mucche producano del latte devono aver avuto dei vitelli. E questo significa che oggi i vegetariani che consumano latte obbligano ad uccidere questi vitelli! Non c'è altro modo! Per esempio in Inghilterra, dove ci sono molti vegetariani, ci sono centinaia di migliaia di vitelli che vengono uccisi all'età di otto giorni, soltanto allo scopo di permettere alle persone di consumare latte. È chiaro perciò che c'è sempre un po' di ipocrisia nel rifiutare [la carne]».

Del resto il veganismo – che rifiuta di consumare anche latte e uova – è rifiutato in modo esasperato dalla combriccola di Bourre. L'obiettivo è evidentemente quello di scoraggiare il vegetarismo presentandolo come inutile ed ipocrita, invece che come degno di stima.

2. Mi sembra che questo sia evidentemente in rapporto con il fatto che la religione cristiana si fonda sul comandamento di uccidere e mangiare gli animali. Negli Atti degli Apostoli, Pietro ha la seguente visione:

«Gli venne molta fame e voleva prendere cibo. Ma mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi. Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In essa c'era ogni sorta di quadrupedi e i rettili della terra e gli uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: 'Alzati, Pietro, uccidi e mangia!'» (Atti 10:10-13, versione italiana della CEI, secondo la editio princeps del 1971.)

Il cristianesimo in quanto religione autonoma nasce da questo abbandono delle prescrizioni alimentari ebraiche. Non è cosa da poco rilevare che il comandamento che fonda la nostra «religione dell'amore» è stato: «Alzati, uccidi e mangia». Mangia senza esitazione, senza porti domande.

E non basta purtroppo che il cristiano uccida e mangi una volta. Ogni successivo rifiuto di mangiare la carne poteva essere segno di «apostasia», o addirittura patto con il demonio:

«Lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti dall'ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza. Costoro vieteranno il matrimonio, imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati con rendimento di grazie dai fedeli e da quanti conoscono la verità. Infatti tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazia, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera.» (I Epistola di Paolo a Timoteo, 4:1-5, versione italiana CEI.)

Paul Ariès non si è inventato niente quando, venti secoli più tardi, accusa gli antispecisti di «satanismo»! – cfr. il suo Retour du Diable, recensito in Cahiers antispécistes, n. 15-16.

In realtà la maggior parte delle culture e delle religioni non cristiane ha espresso dei dubbi quanto alla legittimità dell'uccisione degli animali per la loro carne. Dubbi che si sono tradotti come minimo con l'istituzione di vari tabù e restrizioni relativamente al consumo di carne animale. Al contrario, il fatto di mangiare carne senza porsi alcun problema sarebbe diventato un criterio centrale dell'ortodossia cristiana, che permetteva di scovare tanto i seguaci delle varie eresie, quanto gli ebrei la cui conversione non fosse sincera.

«Durante l'assemblea dei vescovi a Glosar, tenutasi nell'anno 1051, molti eretici furono condannati a morte a causa del loro rifiuto di uccidere galline: uccidere gli animali era contrario al pensiero dei Catari. (G. von Hoensbroech, Das Papstthum in seiner sozialculturellen Wirksamkeit, 1904, p.35, citato in La Bible et le végétarisme, documento dell'Associazione Svizzera per il Vegetarismo, http://www.vegetarismus.ch/pdf/19f.pdf)

Insomma, da quasi venti secoli, quando si tratta di carne, è vietato vietare, ed è anche vietato vietarsi, e addirittura farsi delle domande, mostrare di avere degli scrupoli. Il cristianesimo ha posto sulla carne un tabù alla rovescia, di cui tutta la nostra società è erede.

3. Harki: algerini che, durante la guerra d'Algeria, combatterono al fianco dei francesi, fuggendo poi in Francia al momento dell'indipendenza (N.d.T.).

4. Sensibile/senziente (N.d.T.).